Un gruppo di ricercatori statunitensi ha annunciato di aver sviluppato un nuovo e più efficiente metodo per produrre in laboratorio un plasmoide luminoso: ovvero, una carica luminescente che emerge da una soluzione ionizzata.
Il team della US Air Force Academy del Colorado ha fatto brillare per quasi mezzo secondo la “nuvola” di plasmoide. Conosciute sin dall’antichità, le palle luminose in natura sono state viste fluttuare sopra il terreno o attraverso gli edifici, talvolta sono state notate anche lungo i fianchi degli aeroplani. Si tratta però di fenomeni estremamente rari e difficilmente riproducibili in laboratorio, almeno per una durata sufficiente all’analisi.
I risultati ottenuti dagli scienziati americani sono stati pubblicati nel Journal of Physical Chemistry, sul quale Mike Lindsay, coordinatore del gruppo, ha dichiarato: “Le sfere luminose sono generalmente utilizzate per descrivere fenomeni naturali non definibili come luce normale, lampi, aurore o come i cosiddetti fuochi di Sant’Elmo. Con tutta probabilità infatti non si tratta di un unico fenomeno, ma di più fenomeni dalle caratteristiche molto simili“.
Simili ma non per questo più conosciute, considerato che molti degli studi sui processi fisici e chimici alla base di questi fenomeni risalgono a non più di dieci anni fa. La fascinazione però è molto più antica, e lo stesso Nikola Tesla pare che sia riuscito nella creazione in laboratorio di un plasma, tra il 1899 e il 1900, senza però lasciare indicazioni per riprodurla.
Lo studio di Lindsay e colleghi tenta di far luce, è proprio il caso di dirlo, sulla dinamica complessiva del fenomeno, partendo dall’esame degli effetti dell’elettrolita PH sul plasmoide e dall’osservazione della sua struttura chimica e fisica, con una tecnica di videografia Schlieren ad alta velocità e la spettroscopia infrarossa.
“I risultati indicano che la durata e la dimensione del plasmoide aumentano leggermente quando il PH della soluzione elettrolitica isomico è più basso“. La manipolazione delle condizioni chimiche della soluzione è stata infatti determinante per raggiungere la durata di mezzo secondo.
Secondo quanto spiega Lindsay, non è che abbiano creato esattamente l’atto “luce”, per quanto lo stadio iniziale delle scariche elettriche prodotte da questo plasmoide abbia parecchie affinità con l’illuminazione. Si tratta di altro, ancora meno noto e per questo più affascinante: “Archi elettrici sulla superficie della soluzione da cui emerge il plasmoide“.