Venimmo invitati anche alla Casa Bianca dal presidente George Bush. Il vero capo della Cia. Mi sembrò un guerrafondaio, un bugiardo e un mascalzone. Appena entrati, mi accorsi che mi volevano mettere un po’ da parte. Blandivano Borg, che doveva fare quattro scambi con Bush figlio, e guardavano con preoccupato sospetto sua moglie. Mancavano di umorismo, erano ossessivi e io decisi di farli impazzire.
Mi invitarono a visitare lo Studio Ovale e vidi appeso un grande quadro in cui Toro Seduto faceva bella mostra di sé: «Bello questo ritratto del primo presidente americano, complimenti» dissi. E quelli, che gli indiani li avevano sterminati a tempo debito, capirono l’antifona e sbiancarono. Avevo fatto una battuta, ma pretendere che la capissero era chiedere troppo. Mi mostrarono poi un enorme mappamondo di legno.
Sopra c’erano appoggiate alcune calamite e quella più appariscente, rossa come l’inferno, cingeva la città di Mosca. Mi avvicinai e mi ci sdraiai sopra: «Ma allora è vero che li osservate, i russi?». Mi affacciai fuori per vedere Borg e Bush giocare, ma iniziò a piovere e dopo pochi scambi la partita fu interrotta, con grande scorno di Bush figlio. La babbiona, la moglie di Bush Sr, mi guardava male. Avevo una borsa a forma di orsacchiotto, in tutto e per tutto simile a un peluche che Ilona Staller sfoggiava in Parlamento.
Con me i Bush erano un po’ a disagio. Mi sentivo osservata e a mia volta osservavo incredula uomini della Cia e dell’Fbi intenti ad asciugare con il phon un campo da tennis. L’operazione era vana, perciò il piccolo Bush suggerì a Borg di continuare la gara in un circolo privato: «Così mi fai vincere» disse a bassa voce a Björn, «e io rimorchio un paio di ragazze del club».
Andarono, Borg lo fece vincere e ci rivedemmo a cena alla Casa Bianca. Ospiti d’onore erano i Bin Laden, padre e figlio. Si muovevano come amici di famiglia. Avevano affari solidi con i Bush e non facevano niente per nasconderlo. C’erano ambiti fuori controllo. Onnipotenti che potevano giocare con i destini del pianeta. I Bin Laden e i Bush erano in cima alla lista.
Avevano affari petroliferi in comune e, come se non bastasse, l’America aveva anche un debito di riconoscenza con la famiglia che aveva contribuito a mandar via i russi dall’Afghanistan. Quando ci congedammo, Bush mi donò un blocchetto di biglietti da visita. C’era scritto solo «The President», senza intestazioni personali. Gli diedi una gomitata: «Geniale, così quando vi capita di ammazzarne uno non dovete neanche allertare le tipografie».