Inarrestabile! Il progetto di impiantare un microchip nella nostra testa continua ad appassionare l’élite illuminata e l’impressione che se ne ricava è che costoro abbiano anche una certa fretta. Non c’è verso: prima o poi troveranno la scusa giusta per impiantarci questo benedetto – o maledetto – chip.
Non è una caso che per giustificare l’impianto del piccolo marchingegno vengano carezzate le corde più sensibili dell’animo umano: una volta è per tenere sotto controllo la salute, un’altra volta è per garantire la sicurezza e l’impegno scolastico degli studenti, un’altra volta ancora per consentirci di comunicare con una sorta di telefono cellulare impiantato nel nostro corpo.
Questa volta tocca di nuovo alla medicina. Come riportano i maggiori siti di informazione italiana (La Stampa, Ansa, Libero, ecc..), un consorzio tra scienziati italiani, israeliani e tedeschi coordinato da Stefano Vassanelli, neurofisiologo al Dipartimento di Scienze biomediche dell’Università di Padova, ha sviluppato un microchip di silicio impiantabile nel cervello e capace di stabilire una comunicazione bi-direzionale e ad alta risoluzione con neuroni cerebrali – alquanto inquietante.
Nelle intenzioni dichiarate dai ricercatori, la nuova tecnologia sviluppata in CyberRat rappresenta la base di partenza per lo sviluppo di nuovi sofisticati strumenti sperimentali utili a capire come le reti complesse che i neuroni creano nel cervello interconnettendosi sono in grado di elaborare le informazioni e, meraviglie delle meraviglie, in futuro l’applicazione di questa tecnologia sarà utilizzata per la creazione di neuroprotesi “intelligenti”, capaci di registrare l’attività cerebrale ad alta risoluzione, elaborare delle risposte mediante microelaboratori su chip e stimolare il cervello in un circuito ibrido neuro-elettronico (stronzate tecnicomediche, n.d.r.). Questo approccio sarà di grande aiuto per la terapia di malattie neurologiche, tra cui il Parkinson e l’epilessia. Non è chiaro se l’impianto del microchip è definitivo o temporaneo. Non sono chiare le controindicazioni per una tecnologia così invasiva, che, come dichiarato dai ricercatori, è in grado di “stabilire una comunicazione bi-direzionale”, cioè il chip è in grado sia di trasmettere dati che di riceverli. Ricevare dati per fare cosa? Manipolare le aree del cervello colpite dal Parkinson? E se fosse possibile manipolare le aree del cevello sane? Ai posteri l’ardua sentenza.